Recensione – Il ritorno di Coniglio di John Updike

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Secondo libro della quadrilogia di Coniglio, Il ritorno di coniglio venne pubblicato nel 1971 ma è ambientato nel 1969, un anno notoriamente ricco di avvenimenti di portata internazionale.

In modo sempre più incisivo l’eroe della quadrilogia in questo capitolo della saga fa ritorno alla sua vita. Fa ritorno anche a quell’incompletezza che lo contraddistingue e che decisamente è il segno invariato della sua evoluzione.

Più che eroe, Coniglio è un antieroe, l’everyday man americano costantemente estraniato dal contesto e allo stesso tempo insistemente teso ad una integrazione ed una legittimazione a quanto pare irrisolvibili.

Harry Angstrom, determinato a trovare una collocazione, una casella nella scacchiera sociale, riveste i panni dell’uomo medio, dell’esponente medio della working class e, per così dire, smette di correre. Torna al focolare domestico e alla famiglia da cui era fuggito.

Torna a possedere una casa, una moglie, una famiglia, due divani, un lavoro. In qualche modo si sente convalidato all’interno di un gioco economico di cui è ingranaggio.

Il quartiere in cui adesso abita, Vista Crescent, è il “ghetto” della media borghesia. Quell’omologata immagine di benessere a cui ambire. Il termine di paragone a cui innalzarsi.

E’ il 1969. L’Apollo 11 è atterrato sulla luna. Nixon inizia la sua ascesa alla presidenza. Si moltiplicano le rivolte nei ghetti neri. E mentre il mondo corre verso una modernità che è oltremodo esplosiva, Coniglio si riscopre ancora una volta disconnesso, come intrappolato in una spirale anacronistica. Ideologicamente è paurosamente impantanato in una sorta di terra di mezzo, in precario equilibrio tra passato e futuro, tra vaghe certezze e uno sconvolgimento sociale senza pari.

Le sue certezze, quelle deboli conquiste ottenute con il suo ritorno in famiglia, sono scosse nelle fondamenta. Ed il suo estraniamento è quello dell’uomo che aveva finalmente fatto pace con il suo desiderio di libertà, con le sue manchevolezze, salvo poi ritrovarcisi dentro, ancora un passo indietro.

L’inadeguatezza risultata dal suo ambiguo rapporto con l’altro sesso si acutizza adesso al costo della sua incapacità di condividere, partecipare, comprendere. Le sue non sono relazioni sane.

Il sesso gioca molta parte nella vita di Angstrom. La penna di Updike ci regala non poche scene dal vago accento pop a tal proposito. Il sesso diventa, in questo capitolo della saga, il metro capace di misurare la “presenza” fisica di Angstrom, la sua abilità a soddisfare, a soddisfarsi, a riempire uno spazio.

In Il ritorno di Coniglio, Angstrom dondola tra la necessità di sentirsi legittimato dal clima provinciale di cui fa parte e il desiderio di lasciarsi trasportare passivamente dall’onda degli eventi. E infatti, gli eventi li subisce. L’abbandono di sua moglie, la convivenza accidentale con un’adolescente ricca e tossica scappata di casa e il suo amico/dealer di colore. Subisce persino il sesso con la madre di Billy, amico di suo figlio.

Incessantemente conduce la sua vita, quasi gioiosamente arreso al suo essere “incollocabile“. Il suo lavoro come linotipista gli garantisce quella routine che odora di passato in grado di rinsaldare il suo legame con il padre, con il quale condivide il luogo di lavoro e con la casa materna, ora prigione di una madre azzerata dalla malattia.

La parabola formativa di Angstrom è un saliscendi calibrato sulle onde medie della classe operaia del 1969. Updike tratteggia un uomo che non vuole grandi cose e che pur si ritrova trascinato su e giù nel suo tempo, inevitabilmente contraddetto nelle sue vacue certezze.

Il secondo capitolo della quadrilogia di Coniglio conferma in modo più decisivo l’abilità di Updike di raccontare, se si vuole anche con più audacia, la mediocrità seppur eccezionale dell’uomo medio americano, dell’uomo “normale”.

Il potere delle descrizione qui, più che in Corri, Coniglio (qui la mia recensione di Corri, coniglio), tiene le fila della narrazione. Difficile sentirsi emotivamente coincidenti ad Angstrom (almeno per quello che mi riguarda) ma assolutamente impossibile distaccarsi da lui.
Questa è la grandiosità di Updike, la sua magia. Con un tocco mai forzato, sempre naturale e coerente porta il lettore nei panni di Harry Angstrom lasciandolo però libero di decidere se sentirsi lui oppure no.

A seguire due brani tratti dal romanzo:

Il motivo delle sue rare visite non è Janice: è che non sopporta di vederla così. Colei che gli ha dato la vita che lo guarda fisso mentre farfuglia, cercando le parole per salutarlo. E quel lieve e soffuso odore di malattia che non ristagna solo nella sua stanza ma fluisce giù per le scale venendogli incontro sull’ingresso, tra gli ombrelli, e seguendolo nella cucina, dove il povero papà le riscalda i pasti. Un odore come una fuga di gas, di quelle che tanto la preoccupavano quando lui e Mim erano piccoli. Coniglio china il capo e prega, conciso: Perdonami, perdonaci, aiutala. Amen. Se prega, prega soltanto sugli autobus. E ora, su questo autobus, c’è lo stesso odore.

p.11

David Frost è subentrato a The Match Game, quindi Nelson (il figlio, ndr) la spegne addirittura. E a Harry dispiace l’aria spaurita che gli si dipinge in volto per un attimo: come la faccia di suo padre quando lui starnutiva per strada. Cristiddio, hanno la strizza persino degli starnuti. Suo figlio e suo padre gli fanno la stessa impressione di tristezza e fragilità. Ecco il guaio a darti pena per qualcuno, cominci a sentirti ultrapprensivo e poi ultrassillato.

p.17

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